Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 17116 - pubb. 27/04/2017

Fallimento di società occulta, notificazione, holding personale e spendita del nome

Tribunale Padova, 24 Novembre 2016. Est. Maria Antonia Maiolino.


Fallimento – Dichiarazione – Società occulta – Notificazione – Modalità – Holding personale – Requisiti – Spendita del nome



In tema di dichiarazione di fallimento di società occulta, che per definizione non intende manifestarsi ai terzi e pertanto non ha sede, la notificazione a coloro che nell’istanza sono indicati come soci dell’ente vale ad integrare in maniera adeguata il contraddittorio processuale.

“Secondo la giurisprudenza ormai consolidata la holding personale ricorre ogni qualvolta una persona fisica agisca in nome proprio, per il perseguimento di un risultato economico ottenuto attraverso attività svolta professionalmente, con organizzazione e coordinamento dei fattori produttivi: il che consente la configurabilità di una autonoma impresa assoggettabile a fallimento, sia quando la suddetta attività si esplichi nella sola gestione del gruppo (cd. holding pura), sia quando abbia natura ausiliaria o finanziaria (cd. holding operativa). La ricostruzione non muta se si discuta di una holding resa in forma societaria invece che da una singola persona fisica.

La configurabilità della holding è stata elaborata dalla nota “sentenza Caltagirone” (Cass. SSUU n. 1439/1990) e poi confermata dalle successive decisioni delle Corti di legittimità e merito (Cass. n. 405/1999, Cass. n. 3724/2003, Cass. n. 25275/2006; App. Catania, 18.1.1997; Trib. Padova 2.11.2001; Trib. Vicenza 23.11.2006; Trib. Napoli 8.1.2007; App. Milano 17.6.2008; Trib. Milano, 7.4.2011; Trib. Roma, 8.11.2011).

I dubbi inizialmente posti dalla dottrina e dalla giurisprudenza in ordine alla necessità ai fini del riconoscimento della società di fatto holding del presupposto della spendita del nome della società medesima nei rapporti esterni è stato risolto da Cass. n. 15346/2016, che in modo convincente ha statuito che la società di fatto holding “esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci col fine della direzione unitaria delle società commerciali figlie, vale a dire per l’effettivo esercizio dell’attività di direzione e controllo oggi esplicitamente considerata dall’art. 2497 e seg. Cod. civ.” (in motivazione). La spendita del nome della società, nel momento in cui si discuta non tanto di una società di fatto quanto specificamente di una società occulta, ove evidentemente il rapporto sociale tra i soci di fatto non è stato reso noto all’esterno “non ha senso”: “non ha senso perché (…) è propria di quella fattispecie giustappunto la concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della società ma non in suo nome. Sicché (…) è assolutamente pacifico che in casi del genere, gli atti di impresa, se esistenti in termini oggettivi, sono sempre stati posti in essere “per conto” di un soggetto diverso da quello che appare. E se ricorrono gli altri elementi previsti dall’art. 2247 cod. civ. l’esistenza della società di fatto (occulta) non può essere messa in dubbio” (ibidem in motivazione).
Per costante insegnamento giurisprudenziale, l’esistenza di una società di fatto trova conferma in presenza dei “consolidati tratti dell’esercizio in comune dell’attività economica, della esistenza di fondi comuni (da apporti attivi patrimoniali) e dall’effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite, dunque di un agire nell’interesse (ancorché diversificato e non però contro l’interesse) dei soci” (da ultimo in motivazione Cass. n. 12120/2016, che anch’essa decide un caso di holding di fatto); in particolare l’esistenza della holding di fatto è provata dalla ricorrenza di una serie di indici sintomatici, quali: la detenzione da parte dei soggetti – imprenditori individuali o soci della società di fatto holding – di quote societarie delle società cd figlie; lo svolgimento da parte dei medesimi soggetti di ruoli preponderanti nell’amministrazione delle medesime; la coincidenza tra le attività e l’organizzazione delle società di capitali controllate; lo svolgimento dell’attività di impresa in locali anche parzialmente coincidenti; l’esistenza di ricavi derivanti soprattutto da fatturati intercompany (vedasi, da ultimo, Cass. 18.11.2010 n. 23344).” (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


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